Marco Macrì, famiglie disabiliGenova – “Il Bilancio regionale è tutt’altro che attento alle persone disabili e lo dimostrano le proteste dei genitori dei bambini senza cure e che attendono mesi per ottenere quello che spetta loro di diritto e le sentenze della Corte dei Conti”. A denunciarlo Marco Macrì, vigile del fuoco e padre di un bambino con disabilità che così commenta le parole ascoltate durante il recente spettacolo “Cabaret senza clichè” organizzato da Regione Liguria e Comune di Genova.
Nel corso dell’evento alcune famiglie si sono sentite offese da quanto dichiarato dal palco a proposito dell’impegno profuso dalle amministrazioni per le persone con disabilità.

“Continuo a non capire – spiega Macrì, se chi pronuncia queste frasi lo fa perché non è al corrente di quanto avviene o se invece c’è una errata percezione delle necessità di chi ha bambini con disabilità che faticano a veder riconosciuti i propri diritti ed attende anni prima di potersi curare adeguatamente e con terapie fondamentali che le famiglie sono costrette a pagare di tasca propria”.

Il rappresentante delle famiglie senza cure spera di poter essere ricevuto per poter relazionare nel dettaglio quanto avviene in realtà in Liguria e le difficoltà di centinaia di famiglie cui non vengono riconosciuti diritti sanciti da norme e leggi.

“Ci dispiace guastare la festa che aveva un nobile intento – spiega ancora Macrì ma non possiamo tacere il fatto che è la Corte dei conti a descrivere una situazione diversa. Ci sono minori senza cure (circa 1.700 secondo i dati in possesso di Macrì) e le invalidità civili vengono riconosciute anche dopo 8 mesi quando la norma prevede una risposta entro i 3 mesi (90 giorni) inoltre non c’è una piena inclusione scolastica e in Liguria, quest’anno, gli insegnanti di sostegno sono mancati per mesi e tutti i posti sono stati coperti solo a novembre”.

Secondo le famiglie senza cure non si tratta, quindi, di risultati di cui rallegrarsi ma, piuttosto, una pagina oscura da cancellare al più presto, con gli investimenti necessari a snellire le lunghissime liste di attesa e a permettere ai bambini di ricevere le terapie necessarie e ai genitori di non dover decidere se mangiare o curare i propri figli disabili.

“Non possiamo parlare di vera inclusione – spiega Macrì – sino a quando le famiglie liguri dovranno aspettare per poter ricevere le terapie necessarie e siamo sicuri che, se avremo modo di spiegare quanto sia critica la situazione a chi forse non è sufficientemente informato, riceveremo l’attenzione che crediamo di meritare”.

Tutto ruota attorno al riconoscimento dei diritti sanciti dalla Legge 104. Attualmente, in Liguria, a fronte di una crescita esponenziale delle problematiche più o meno gravi, occorrono sino a 8 mesi per ottenere la certificazione, ovvero il riconoscimento di una disabilità.
Poi, i genitori dei bambini con queste problematiche, sono solo al primo di una serie di scalini di un percorso ad ostacoli che sembra non lasciare scampo.

“Un bambino con una diagnosi, ad esempio di sindrome dello spettro autistico – spiega ancora Macrì – deve iniziare quanto prima delle terapie come la psicomotricità e la logopedia che sono fondamentali per il massimo recupero delle sue potenzialità. Parliamo di cure che possono fare la differenza tra un adulto in grado di cavarsela da solo e uno completamente dipendente da altri. Mi domando se, davvero, chi afferma che le istituzioni facciano il necessario, è al corrente di quanto avviene invece al di fuori dei propri uffici. Noi vogliamo credere che sia una carenza di informazione e siamo pronti a fornire tutti i dati necessari. Se questo confronto non ci sarà dovremo nostro malgrado pensare che non ci sia questa volontà di inclusione e che la verità venga mistificata per motivi che non sono chiari o forse lo sono sin troppo”.

Le famiglie senza cure chiedono che i genitori non debbano attendere anni per vedere garantiti i propri diritti. Chiedono che i loro figli possano essere “chiamati in convenzione” con le strutture private laddove non sia possibile operare con il servizio sanitario pubblico e che quantomeno vengano risarcite, come prevede una sentenza recente del Tribunale di Napoli, tutte le spese mediche effettuate per garantire privatamente le terapie che si rendono necessarie e che lo stesso sistema sanitario considera fondamentali.

Un altro esempio di “disfunzionamento” dell’apparato creato per affrontare le problematiche come quelle dell’autismo, con un’impennata impressionante di nuove diagnosi, è la nascita del centro specializzato di via del Lagaccio.
Un centro di eccellenza secondo i pareri della maggior parte dei genitori che lo frequentano ma che ha solo specialisti con contratti a tempo determinato e rinnovato di anno in anno e che va “interrotto” alcuni mesi ogni anno per non ricadere nelle norme che regolano le assunzioni a tempo indeterminato.
In pratica, ogni anno, il progetto deve essere rifinanziato e il personale, dopo un periodo di “vacanza contrattuale” di qualche mese, torna a lavorare, con le medesime mansioni, lo stesso posto di lavoro e lo stesso incarico, per un altro anno.
Facile immaginare poi, che con la continua espansione della richiesta di terapie, i centri privati “saccheggino” a mani basse gli elenchi dei professionisti formati nel pubblico, offrendo contratti più solidi, riconoscimenti economici più alti e una concreta possibilità di lavorare meglio, con più soddisfazione e con maggiori garanzie occupazionali.

“Ci sono famiglie che approdano a questo centro – spiegano le famiglie senza cure – e ricevono un parental training (sostegno familiare) fondamentale per affrontare la disabilità dei bambini che poi “cessa” dopo un annetto per consentire l’ingresso di altre famiglie. Come se la disabilità guarisse o scomparisse o la necessità di un supporto terminasse o, ancora come se le famiglie apprendano in qualche seduta mensile come affrontare l’uragano rappresentato da un figlio che potrebbe non diventare mai autonomo e in grado di vivere la vita di tutti i giorni”.

Per tutti questi motivi le famiglie senza cure per i bambini disabili attendono un “segno” da parte di chi potrebbe intervenire concretamente per risolvere, almeno in parte, la loro sofferenza e si riservano un giudizio sulle frasi pronunciate pubblicamente da chi sostiene che le istituzioni locali stiano facendo “il necessario” per una reale e completa inclusione