Budapest – Non tutti ricordano che la prima breccia nella ‘cortina di ferro’ – plumbeo diaframma tra Est e Ovest – fu aperta dall’Ungheria. Il 2 maggio 1989, sei mesi prima della caduta del Muro di Berlino, il governo ungherese, guidato dai comunisti riformatori, consentì la rimozione delle fortificazioni al confine con l’Austria. Oggi la storia si è ribaltata. Dopo l’annuncio del giugno scorso, il governo di Budapest, guidato dal populista di destra Viktor Orbán, sta terminando in tempi rapidissimi la costruzione di un muro lungo 175 chilometri al confine con la Serbia per impedire l’ingresso di migranti in territorio ungherese. La barriera, formata da reticolati di filo spinato, reti metalliche e piloni d’acciaio, è alta 4 metri ed è stata innalzata con macchinari di fabbricazione italiana.

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La fine dei lavori è ormai prossima. Il 31 agosto, dopo appena un mese e mezzo di cantiere, il ‘muro della vergogna’ sarà ultimato. Progettazione e messa in opera sono state affidate all’esercito, coadiuvato da centinaia di disoccupati che in cambio di un reddito minimo hanno risposto alla chiamata dello Stato. L’Ungheria ha innalzato, dunque, la sua muraglia per respingere la folla di migranti pachistani, afghani e siriani che cercano di entrare in Europa affrontando, spesso a piedi, la massacrante e insidiosa rotta balcanica. E’ noto, peraltro, che l’Ungheria è solo un territorio di transito e che le destinazioni finali di migliaia di disperati sono Germania, Svezia, Austria, Belgio, Inghilterra e, in misura minore, Francia  e Italia. Il muro ungherese, a ben vedere, conviene a molti. Ecco spiegato il silenzio assordante dell’Europa.

Fabio Tiraboschi