Rocco Gianluigi

Genova – Il covid ha ucciso lo psichiatra forense Gian Luigi Rocco ed il figlio Gian Luca, giornalista TGcom ha affidato alle pagine Facebook una toccante lettera denuncia sulle difficoltà incontrate per le cure e un appello accorato a chi, in forza delle normative anti covid, si lamenta per non poter festeggiare in famiglia il Natale.

Una testimonianza diretta e straziante di quanto grave sia la situazione nonostante i proclami e la propaganda fatta per cercare di minimizzare una situazione ancora disastrosa e meritevole della massima attenzione dello scrupoloso rispetto delle regole di auto-difesa.
Ecco il testo della lettera affidata a Facebook:

“Oggi sono morte per il Covid-19 993 persone, mai così tante in un giorno.
Gian Luigi Rocco era mio padre e, in modo poco originale, è stato uno di quei morti.
Aveva 71 anni e, pur non potendolo definire “in forma”, non aveva nulla se non un lieve diabete.
Fino al mese scorso, era stato in ospedale solo due volte (al Pronto soccorso per la precisione). La prima perché si era rotto il braccio giocando a calcio e la seconda per dei calcoli alla cistifellea, poi spariti con dieta e tanta plin plin.
Il 3 novembre il tampone è risultato positivo al Covid 19. Aveva il raffreddore da una settimana e perso gusto e olfatto.
Il 6 novembre è stato portato al pronto soccorso di San Martino perché la sua saturazione era crollata. Durante la breve degenza, non lo hanno ossigenato, perché l’ossigeno era finito a causa dei troppi accessi. E’ stato 12 ore su di una sedia di un reparto traboccante di pazienti anche messi peggio di lui. Gli hanno fatto l’esame del sangue, una lastra e poi hanno deciso che insomma, non stava così male, nonostante una serie di asterischi vicini alle analisi che anche Pinco Palla dottore di Wikipedia avrebbe storto il naso. Hanno detto che dalla lastra forse c’era una lieve insufficienza respiratoria, ma niente di grave. Lo hanno rimandato a casa alle 20. Alle 20,30 aveva 40 di febbre e non respirava più. L’hanno portato di nuovo via, questa volta verso un altro ospedale.
Il 3 dicembre, cioè quell’oggi che ora volge al termine, è morto, da solo, in un reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Galliera di Genova dopo oltre due settimane di rianimazione e altrettante di degenza (sempre da solo) sotto un caschetto cpap che faceva lo stesso rumore, quando cercavamo di parlare, di un sottomarino russo atomico, con tanto di bip. Appena entrato gli hanno fatto una TAC che sentenziava: broncopolmonite interstiziale bilaterale con il 70% dei polmoni compromessi.
L’ultima volta che l’ho sentito, alle 15,30 del giorno in cui è finito in terapia intensiva, abbiamo parlato (faticosamente) di Trump che non accettava il verdetto delle elezioni (la cosa lo preoccupava inspiegabilmente molto) ma soprattutto di Preziosi che non aveva venduto il Genoa. Lui mi ha ricordato che avremmo giocato la domenica alle 18 contro l’Udinese una sfida decisiva per la salvezza (persa, ovviamente).
Mio padre era un papà a volte distratto, ma sempre presente. Ci sentivamo ogni santissimo giorno alle 20 (cioè in realtà esattamente quando io stavo per iniziare a mangiare, manco avesse una webcam sopra di me). Due parole, giusto per ricordarci che c’eravamo sempre, anche a distanza. Abbiamo fatto tante cose insieme, forse più che tanti altri padri e figli. Abbiamo condiviso gioie e tanto dolore, forse più che tanti altri padri e figli. Non ho rimpianti, non li aveva nemmeno lui, ne sono certo.
Mio padre era un medico (ok, uno psichiatra e uno psicoanalista, facciamo finta che fosse anche un vero dottore, dai) preparato e attento. Metteva il suo lavoro al di sopra di ogni cosa. Ho odiato senza conoscerlo, ogni suo singolo paziente, perché senza una faccia e senza una voce, a volte sembrava contare più di me e di mia sorella. Ma crescendo ho capito anche che quella era una parte della sua vita fondamentale, come me e mia sorella.
Mio padre era uno psichiatra forense eccezionale, forse uno dei più bravi in Italia. Non ha mai voluto le luci della ribalta. A parte “Un giorno in Procura”, dove non aveva scelta, non è mai finito in tv, nonostante i corteggiamenti serrati di diverse primedonne dei talk show. Diceva che se vai in tv, non segui i pazienti. O fai la soubrette o fai il medico, il clinico. Oggi questo discorso, è valido più che mai.
Mio padre era un marito affettuoso e fortunato. Ha amato due donne con tutto se stesso. Mia madre, morta prematuramente, e poi negli ultimi 19 anni ha avuto la fortuna di trovare un’altra persona con la quale condividere ogni aspetto della sua vita.
Mio padre era un nonno orgoglioso. Non era tanto capace, diciamocelo. Un po’ distratto se vogliamo, non certo il nonno che si metteva a giocare per ore con il o i nipoti, ma Beatrice, Leonardo e Ginevra erano la luce che faceva brillare i suoi occhi. Per tutti e tre aveva una sorta di adorazione cieca, proprio quella che contestava a suo padre quando mio nonno parlava di me o di mia sorella. La legge del contrappasso.
Mio padre era tante altre cose che nemmeno conoscevo. Magari amici, colleghi, persone che lo frequentavano in altre vesti, lo sanno anche meglio di me.
Mio padre sarebbe ancora vivo e probabilmente, nonostante una forma scadente e un girovita abbondante, lo sarebbe stato per i prossimi 20 anni se non ci fosse stato e se non si fosse preso il Covid.
Perché mio padre diceva che stava attento, ma riceveva i pazienti. Che metteva la mascherina, ma andava in Tribunale. Che insomma, non poteva stare in casa, aveva cose da fare, persone da vedere.
Mio padre non c’è più, ma là fuori ci sono ancora persone che si lamentano perché Natale lo faranno da soli. Perché non possono andare al ristorante, perché non possono inforcare gli sci, perché è tutta una truffa, una dittatura sanitaria orchestrata, tra l’altro, non si sa bene da chi. Bene, pensate che nel 2021 tornerete a fare tutte queste cose con i vostri cari. Mio padre non potrà più. Noi non potremo più.
Scrivo, e se volete condividetelo, anche per questo. Perché una piccola sofferenza oggi (se sofferenza si può chiamare la distanza per un periodo limitato dai propri cari, il rispetto di misure minime di precauzione, l’idea che sia un anno, un periodo particolare), vi può risparmiare una grande sofferenza domani.
Non auguro a nessuno un mese come il nostro. Una discesa all’inferno senza nessun appiglio al quale aggrapparsi. L’impossibilità di vedere, salutare, abbracciare il proprio caro. L’attesa di una telefonata per sperare in qualche miglioramento. Seppellirlo sapendolo in un sacco come un soldato in guerra (ironia della sorte, nemmeno aveva fatto il servizio militare), magari vestito con il pigiama sporco con cui è morto.
Non ho rabbia, non ho rancore. Non mi sento nemmeno una persona sfortunata, né posso dire che mio padre lo sia stato. E’ persino riuscito a finire di leggere il libro che suo figlio e sua nuora hanno scritto. Abbiamo avuto tanto, abbiamo dato tanto. Papà non credeva in Dio, al massimo in Freud, ma diceva sempre (parafrasando Epicuro): “Non ho paura della morte, perché dove ci sono io non c’è lei e dove c’è lei, non ci sono io”. Oggi lui non c’è più, e la morte al massimo ce l’ha lasciata un po’ addosso.
Però se anche una sola persona che leggerà queste righe, da oggi starà un po’ più attenta, si renderà conto, magari conoscendomi direttamente, che questa malattia esiste e colpisce duro, è spietata con una certa categoria di persone, beh, la sua morte sarà servita a qualcosa in più che riempiere una casella di una inutile statistica.