palla di cannone piantata nel muro di un palazzo

Genova è stata una delle prime città ad essere “bombardata” dal mare. Il record appartiene ad Algeri che la precede nel triste primato di pochi giorni. L’autore delle stragi è invece lo stesso: i francesi.
Ancora oggi è possibile trovare alcune “bombe” ben in mostra nei muri dei palazzi del centro-storico come in vico Cartai.

I fatti risalgono al lontano 1684, infatti, Luigi XIV, il Re Sole, decise di sperimentare sulle due città una nuovissima arma messa a punto dai suoi ingegneri, la “galiote à bombes“.
Si trattava in pratica di scafi rinforzati e disalberati, costruiti di modo tale che il rinculo provocato dai colpi sparati dai mortai imbarcati non sbilanciasse la nave; in pratica le antenate delle cannoniere del XIX secolo; il loro utilizzo tattico consisteva nel solo bombardamento “terroristico”, nel senso che se la precisione lasciava alquanto a desiderare, queste navi erano in grado di riversare una gran quantità di proiettili su obiettivi abbastanza estesi – per l’appunto una città – e per il sovrano che aveva ordinato di apporre sulle culatte dei suoi cannoni il motto “VLTIMA RATIO REGVM” (ovvero “l’ultima ragione dei re“, sottintendendo l’uso della forza) costituivano un formidabile argomento per sbloccare le trattative diplomatiche.

All’epoca Genova era ancora nell’orbita dell’Impero Spagnolo.  La sua forza non era più quella di una volta, ma il suo ruolo di capitale finanziaria era rimasto intatto nonostante la concorrenza di Amsterdam.
A Versailles lo sapevano benissimo: un consigliere aveva scritto al re che “Genova e Marsiglia unite sotto lo stendardo del Giglio darebbero legge. Faccia il Cielo che un monarca sì invincibile unisca alla sua corona questo prezioso fiore“.
Luigi XIV, convintissimo che il modo migliore per prevenire le guerre fosse quello di iniziarle, cominciò ad accampare una serie di astruse questioni di etichetta che sfociassero in un possibile casus belli contro la Superba, finché, quasi senza rendersene conto, i genovesi si trovarono una flotta di 160 navi francesi davanti al porto in pieno assetto di guerra.

L’intento dei francesi era palesemente quello di costringere Genova a rinnegare platealmente l’alleanza con la Spagna e passare nell’orbita francese. Il governo genovese rifiutò e per dieci giorni le navi francesi vomitarono sulla città un inferno di proiettili (alcuni dei quali si possono vedere ancora oggi, uno al Museo del Mare e uno in Santa Maria di Castello)
I francesi provarono anche a sbarcare la fanteria di marina, ma vennero immediatamente respinti. Mentre dalla Spagna – ormai ridotta all’ombra dell’impero che era solo cinquant’anni prima – non arrivavano aiuti, il doge Francesco Maria Lercari  dichiarò solennemente che la città non era disposta a trattare sotto il fuoco nemico: era la maniera diplomatica per dire che si era pronti a farlo non appena la flotta francese avesse levato le ancore, cosa che difatti avvenne.

Per la verità, Genova – e anche Algeri, bombardata qualche settimana prima – si erano dimostrate più “toste” di quel che i francesi sospettavano, d’altra parte in quel momento tutta l’Europa era preoccupata dallo strapotere del Re Sole e, alla lunga, non sarebbe stato difficile per la Superba trovare nuovi alleati.
La stessa corte di Versailles, poi, era frammentata tra correnti e fazioni ciascuna gelosa dei successi degli altri, una situazione in cui non era impossibile inserirsi per salvare il salvabile: insomma, una batosta, ma non una disfatta vergognosa.

Le condizioni imposte da Luigi XIV erano umilianti, in linea con il carattere del personaggio: una delegazione di senatori capeggiata dal doge in persona avrebbe dovuto recarsi a chiedere scusa al re e protrarsi chiedendo perdono.
A Genova si dice “Piggià e spassué e bagià u brùgu” (prendi le ramazzate in testa e bacia il manico della scopa), ma il governo decise di far buon viso a cattivo gioco, e una delegazione di cui faceva parte anche il doge Lercari partì alla volta di Versailles nel 1685.
Si trattava di un fatto inaudito: nel corso del suo mandato, il doge poteva allontanarsi dal Palazzo Ducale solo in occasioni eccezionali, e l’imposizione proveniente da un sovrano esterno costituiva davvero un’umiliazione.

Alla fine, tuttavia, Francesco Maria Lercari non se la cavò niente male: dovette prostrarsi di fronte al Re Sole nella fastosa cornice della Galleria degli Specchi, ma si vendicò con consumata malizia mettendo becco in tutte le complicate cerimonie di corte: ad esempio nel vedere le prove di un carosello di cavalieri in onore del delfino, fece subito mettere in giro la voce che fosse una parata preparata in onore dei genovesi, costringendo gli imbarazzatissimi cortigiani a rinviarla in fretta e furia.
Ma il suo vero momento di gloria lo ebbe quando un azzimato gentiluomo di corte gli chiese in tono vanesio cosa lo avesse stupito di più durante la sua permanenza a Versailles: la sua lapidaria risposta in genovese, “Mi chi” (trovarmi qui), sarebbe stata raccontata per anni alla corte francese come esempio di prontezza di spirito.
Genova ne usciva con le ossa rotte, ma sapeva ancora fare bella figura. Nel frattempo, gli altri membri della delegazione avevano saggiato le possibilità economiche della corona francese, scoprendo che i suoi tesorieri erano in grado di concedere un non disprezzabile 7,15% di interesse sui prestiti.
Il secolo dei genovesi era finito, ma quello dell’oro poteva continuare.

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