Genova – La notizia del “miglioramento” della piccola Tafida, la bimba inglese trasferita all’ospedale Gaslini dopo che la Giustizia inglese aveva deciso di staccare le macchine che la tengono in vita anche contro il parere dei suoi genitori, è stata accolta con grande interesse dall’opinione pubblica ed ha suscitato reazioni opposto.
Sul caso interviene anche Mario Riccio, medico anestesista di Piergiorgio Welby e consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni:

Questa notizia dimostrerebbe che i giudici inglesi avevano torto ad indicare che il miglior interesse della piccola paziente era un percorso di desistenza terapeutica che l’avrebbe accompagnata a morte – scrive Mario Riccio – Tafida è in una condizione, stando alle poche notizie cliniche certe, di stato vegetativo o al massimo minima coscienza secondario alla rottura di una malformazione vascolare cerebrale. Come hanno riferito gli stessi curanti, al momento è stato solo possibile: supportare le funzioni vitali di Tafida, renderle più confortevoli affinché sia possibile la cura a casa della bambina da parte dei genitori, ossia rendere possibile la ventilazione meccanica e la nutrizione a domicilio.
E’ evidente che sarebbe stato possibile raggiungere tale obbiettivo anche nel prestigioso ospedale londinese ove era ricoverata. Ma la questione che si sono posti i giudici ed i medici inglesi era un’altra. E’ questo il “best interest” della piccola? Sicuramente per i genitori veder continuare la vita, almeno quella biologica, della loro figlia è motivo di consolazione, almeno stando alle loro dichiarazioni. Ma siamo certi che questo è sufficiente a giustificare l’invasività dei trattamenti, tracheotomia e gastrostomia percutanea, a cui è stata sottoposta? L’idea di contrapporre i buoni- cioè il Gaslini, contro i cattivi, i medici e il sistema giudiziario inglese, è del tutto fuorviante. Necessiterebbe invece una seria riflessione sul valore della vita. Tafida non può e mai potrà partecipare a questa riflessione, rimane soggetto passivo condannata in una condizione artificialmente sostenuta, senza reale possibilità di un ritorno ad una vita attiva. L’unica consolazione è che non può soffrire, nè fisicamente nè psicologicamente- della sua stessa condizione”.