Stanford – Durante la conferenza alla Graduate School of Business di Stanford, l’ex manager di Facebook Chamath Palihapitiya, responsabile per la crescita degli utenti di Facebook dal 2007 al 2011, è intervenuto senza mezzi termini criticando ampiamente il mondo dei social network, dichiarandosi addirittura tremendamente colpevole.
“Voi non ve ne accorgete, ma state subendo una programmazione. Ora, però, dovete decidere a quanta della vostra indipendenza intellettuale siete disposti a rinunciare“. E continua: “I cicli di feedback a breve termine (ovvero cuori, like a pollici all’insù) che abbiamo creato, guidati dalla dopamina, stanno distruggendo il modo in cui la società funziona. E non è un problema americano ma un problema globale“. Per l’ex manager, la sola soluzione possibile è staccare la spina, utilizzare i social network il meno possibile e fare in modo che i più piccoli ne stiano totalmente lontani; i suoi figli non hanno assolutamente modo di accedere a “that shit”, frase che non ha bisogno di spiegazioni ulteriori.
Il mondo dei social ruba tempo prezioso durante la giornata di tutti gli utenti: “Dedichiamo le nostre vite a questo percepito senso di perfezione, perché veniamo ricompensati con questi segnali a breve termine dando loro anche valore e importanza, confondendoli con la verità. E invece la loro realtà è falsa, fragile popolarità a breve termine che vi lascia – ammettetelo – ancora più vuoti di prima, perché poi vi inserisce in questo circolo vizioso in cui vi chiedete in continuazione “Ne ho ancora bisogno, qual è la prossima mossa?“”
Dopo aver lasciato Facebook, Palihapitiya è diventato un affermato venture capitalist. Investe in startup nel settore sanitario ed educativo con il suo fondo, Social Capital. Il suo intervento a Stanford arriva a rincarare la dose dopo le critiche sollevate da Sean Parker, il fondatore di Napster e uno dei primi grandi investitori che aveva dato fiducia all’idea di Zuckerberg. Secondo Parker, Facebook e gli altri social riescono ad avere successo solamente grazie allo “sfruttamento di una debolezza intrinseca della psicologia umana“.