Genova – Il caso del ragazzo che ha salvato i compagni di scuola dall’autobus dirottato continua a far discutere, soprattutto per la proposta di riconoscere al ragazzo, di origini straniere, la cittadinanza italiana per il suo gesto coraggioso.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento di Lara Trucco, professore ordinario di Diritto costituzionale dell’Università di Genova:
Come talvolta accade, sono i fatti di cronaca a portare o riportare alla ribalta questioni e situazioni destinate altrimenti a rimanere sotto traccia.
Il pensiero corre alla vicenda di qualche tempo fa, che ha visto protagonista Rami: il ragazzino di quasi quattordici anni che è riuscito a scongiurare il disegno criminoso dell’autista che ha dapprima dirottato e poi dato alle fiamme il bus su cui egli stava viaggiando insieme agli altri compagni di scuola.
Libero di liberarsi e di liberare maestre e compagni su quel bus grazie al proprio cellulare, Rami, però, è diverso dai suoi amici: non è cittadino italiano benché abbia potuto trovarsi su quel bus perché in Italia “la scuola è aperta a tutti” (art. 34 della Costituzione): anche ai minori stranieri può essere garantito il diritto all’istruzione, alla formazione e all’accesso ai servizi socio-educativi, aumentandone le probabilità di integrazione.
Ma come lo si spiega a Rami, a ragione considerato ora un piccolo eroe, che pur essendo nato in Italia non è italiano?
Perché le norme che dispongono come si attribuisce la cittadinanza, adottano il criterio dello “ius sanguinis” per cui l’acquisizione dello status di cittadino avviene fondamentalmente per il fatto di essere nati da un genitore italiano ed è dunque cittadino per nascita “il figlio di padre o di madre cittadini” (v. l’art. 1, c. 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91).
Rami, invece, è figlio di genitori extracomunitari (egiziani) con permesso di soggiorno di lungo periodo. Peraltro, nel suo caso nemmeno il fatto di aver compiuto un atto “di particolare valore civile” potrebbe aiutarlo nel realizzare il suo sogno, dato che il nuovo decreto sicurezza prevede in casi del genere il semplice rilascio di un permesso di soggiorno…che Rami già possiede (v. ora l’art. 42-bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286).
Certo, potrebbe forse essere il Capo dello Stato a concedergliela, avendo lo straniero, secondo quanto vuole la legge, “reso eminenti servizi all’Italia”, così che Rami potrebbe diventare cittadino dal giorno successivo al giuramento di fedeltà alla Repubblica.
Tuttavia, ciò richiederebbe che il Ministro dell’Interno (la cui posizione è stata sinora piuttosto incerta al riguardo) tenesse ferma la propria volontà di procedere in tal senso, essendo il decreto del Presidente della Repubblica condizionato, in queste ipotesi, al parere del Consiglio di Stato e a una delibera del Consiglio dei ministri su proposta dello stesso Viminale di concerto con il Ministro degli affari esteri (art. 9, 2° c. della legge n. 91/1992, cit.)
Diverso, invece, sarebbe stato se Rami fosse nato in Italia da genitori (entrambi) ignoti o apolidi, oppure se fosse figlio di persone che non hanno la possibilità di trasmettere al figlio la propria cittadinanza “secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono”, o se fosse stato adottato da persone italiane, o se fosse “figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica”, senza il possesso di altra cittadinanza, ovvero ancora, più in generale: in tutti quei casi in cui non è dato di provare il possesso di altra cittadinanza. In tutte queste evenienze, infatti, la legge dispone che al minore debba essere attribuita la cittadinanza italiana (l’art. 1, c. 2 della legge n. 91/1992, cit.).
Insomma, ciò che si vuole evitare è la mancanza di qualsiasi cittadinanza dato che essa costituisce una condizione tra le meno desiderabili perché non sei figlio di nessuno e nessuno ti riconosce.
Analogamente, muovendo proprio da una tale consapevolezza che le Carte internazionali hanno cura di disporre che “ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza” (art. 15 della Dichiarazione Universale”), e che sia particolarmente al “fanciullo” ad essere “registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora abbia diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi” (v. l’art. 7 della Convenzione di New York sui Diritti del fanciullo del 1989).
Le norme europee, poi, stabiliscono che “la cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce” (v. l’art. 8 del TUE). Là dove del valore di una simile concessione è ancora data prova da parte nostra stessa Costituzione, nella quale, memori di un non lontano passato, si prevede che nessuno possa essere privato, per motivi politici, degli elementi minimi identificativi “della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome” (art. 22), così che è solo in casi particolarmente gravi che se ne può essere privati.
A tale riguardo, va osservato che il nuovo decreto sicurezza ha introdotto una più marcata distinzione tra i casi di revoca della cittadinanza a seconda che si abbia a che fare con cittadini italiani dalla nascita, i quali, in sostanza, possono perdere la cittadinanza solo nei casi di “tradimento dello Stato” (spec. in “stato di guerra”), oppure con individui divenuti cittadini italiani in un secondo momento, a cui un tale status può essere revocato ora anche nel caso di condanna definitiva per taluni reati “comuni” (rispettivamente, art. 12 e art. 10-bis della legge n. 91/1992, cit.). Si osserva, peraltro, come l’autista del bus potrebbe incorrere proprio in questa seconda “categoria” non essendo cittadino italiano dalla nascita e risultando indagato (anche) per terrorismo (segnatamente: per il compimento di un reato per “finalità di terrorismo”): e cioè, proprio una di quelle ipotesi che, in caso di condanna definitiva, può portare (ora) alla revoca della cittadinanza (v. l’art. 270-quinquies c.p.).
Comunque sia, per Rami è andata anche sfumata l’occasione prefigurata nel disegno di legge poi decaduto (atto Senato n. 2092 della XVII Legislatura) per cui poi, egli avrebbe potuto ottenere lo status di cittadino se in base al criterio dello “ius soli”: criterio questo, che, infatti (differentemente da quello dello ius sanguinis), prevede che la cittadinanza venga acquisita per il fatto stesso di nascere nel territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori. Così che il quattordicenne in base alle nuove norme sarebbe dovuto essere considerato “cittadino per nascita”, essendo “nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri”, di cui almeno uno “titolare del diritto di soggiorno permanente” (art. 1, c. 1, b-bis)).
Allo stato attuale, invece, per diventare italiano, Rami dovrà attendere il raggiungimento, tra quattro anni, della maggiore età, così che solo allora potrà godere dei diritti di partecipazione politica. Si accenna solo al fatto, poi, che per onorare quanto auguratogli dallo stesso Viminale, diventando parlamentare dovrà passare ancora più tempo, dato che sono eleggibili a deputati tutti gli elettori (cittadini) “che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età” (art. 56, 3° c. Cost.) ed “a senatori gli elettori (cittadini) che hanno compiuto il quarantesimo anno” (art. 58, 2° c. Cost.).
Tornando all’ordinario, la legge stabilisce infatti che lo straniero nato in Italia, e che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, possa diventare cittadino “se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data” (art. 4, c. 2, legge n. 91/92, cit.). Una sorta di “ius soli” ritardato: “naturalizzazione”, insomma, del cui differimento, per vero, paiono sempre meno comprensibili le ragioni, risalendo, ormai, la legge sulla cittadinanza ad un’altra epoca…e correlativamente più concreto il rischio che possa incorrere in censure da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui giurisprudenza, infatti, va affermando ormai da tempo che «does not exclude that an arbitrary denial of a citizenship might in certain circumstances raise an issue under Article 8 of the Convention because of the impact of such a denial on the private life of the individual» (v., tra le altre, Corte EDU, Karassev v. Finland, dec. del 9 ottobre 2003, su ric. n. 69405/01).