Rapallo (Genova) – Ancora polemiche e accese discussioni per il progetto perla realizzazione di un nuovo centro commerciale nelle aree del Campo Macera, storico punto di riferimento sportivo per la cittadina del Tigullio. Sulla vicenda ci viene inviato un documento a firma di Luca Peccerillo che appare doveroso pubblicare.
E’ il ferragosto del 1914 quando IL MARE, settimanale locale, da’ l’annuncio fatidico: “Nella nostra città ha assunto forma ufficiale un circolo sportivo “Ruentes” che già da qualche anno veniva formandosi fra la nostra gioventù, fiera della sua esuberanza di vita ed elevatezza d’intenti”.
Così riporta Umberto Ricci nel suo libro, aggiungendo che viene eletto presidente lo studente in legge Eugenio Giuffra e che il primo incontro dei “biancoblu” (i primi colori sociali) si disputa il 18 settembre con un derby con l’Entella Chiavari perso 4-1.
E’ assai particolare il nome della squadra dato che non è legato a nulla che riguardi la città (vedi per esempio l’Entella Chiavari che riporta il nome del fiume che in pratica disegna il confine chiavarese) ma assume nel proprio significato la caratteristica principale che dovrebbero avere i giocatori del Rapallo:
gli “Irruentis”, gli irruenti, participio passato del verbo latino irruere, irrompere.
Dal “Devoto-Oli” Irruente è colui che avanza con forza impetuosa.
Si potrebbe facilmente dire: un nome che è tutto un programma, la voglia di dare tutto con irruenza nello svolgimento della propria passione. Ma anche un nome quanto mai fortunato, visto che dopo quasi 110 anni siamo ancora qui a scriverlo e ad omaggiarlo.
Spesso gli abitanti di Rapallo vengono definiti “ruentini” e la stessa città chiamata “la città ruentina”, è un errore, piccolo e di buona volontà, ma errore.
I ruentini, gli “irruenti” sono soltanto i giocatori della Rapallo Ruentes, perché il nome rappresenta uno stato d’animo, un “modus vivendi” di chi indossa quella maglia e anche di chi tifa per i colori della squadra della propria città, ma non della città stessa e dei suoi abitanti.
Dopo un periodo di stasi dovuto alla prima guerra mondiale, il Rapallo Ruentes ricompare sulla scena calcistica nel maggio 1919 con il presidente Ettore Vassallo e una bella vittoria (2-1) contro il Centro Giovanile di Lavagna.
Per proseguire l’attività è impellente poter disporre di un campo da gioco e così il 28 marzo 1920 viene inaugurato il primo campo sportivo che permette di partecipare al campionato di Promozione ‘20-21.
L’anno successivo i ruentini cambiano i propri colori sociali adottando il bianconero con
una bellissima maglia a scacchi.
Dopo alcune stagioni fra Terza e Seconda Divisione, nel 1928 avviene l’agognato salto in Prima Divisione, campionato interregionale che vede il Rapallo impegnato fino al ‘35
con buoni risultati e una “chicca” non di poco conto.
Per due stagioni, infatti, l’allenatore dei ruentini è Renzo De Vecchi, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio italiano, soprannominato “Figlio di Dio”, che venne a vivere a Rapallo dopo aver terminato la propria carriera di calciatore nel Genoa.
Le fortune calcistiche richiedono un terreno di gioco all’altezza della situazione e così all’inizio degli anni Trenta, il campo viene sistemato e dotato di tribuna come si può notare in una splendida fotografia del 1931 e come descrive un maestro storico della nostra città come Pierluigi Benatti (i cui scritti meriterebbero di essere sistemati, raccolti e conservati nella biblioteca di ogni rapallino) in un articolo apparso nel tempo su diverse riviste locali fra cui “I Rapallin”.
“Negli anni Trenta il campo – scrive Benatti – “U Campu” della “Ruentes” ebbe la sua nuova tribuna in cemento armato e si confermò come meta obbligata domenicale per gli sportivi in una periferia ariosa costituita da orti coltivati e campi erbosi aperti, percorsa dal torrente Boate (o Bogo) appena imbrigliato da argini possenti dopo travagliate e tragiche esperienze alluvionali. Noi ragazzini per poter assistere alle partite, a meno che l’incaricato all’ingresso, che immetteva al parterre, non chiudesse benevolmente un occhio per assicurare un tifo entusiastico quanto chiassoso alla squadra che indossava gli scacchi bianconeri, ci arrampicavamo agilmente sul tetto dei magazzini collegati alle case che affiancavano il
campo ed avevano l’accesso sul viale di platani che, superata la “Canfora”, recava a Sant’Anna.
Li conoscevamo uno per uno i nostri giocatori, un po’ perché alcuni erano “rapallini” Doc, un po’ anche perché chi veniva da fuori entrava e rimaneva nei ranghi per molti anni”.
La splendida foto del campo, scattata il 1 febbraio 1931 prima del fischio d’inizio della sfida fra Rapallo Ruentes e Sestrese vinta 1-0 dai bianconeri, conferma come il Campo di Calcio di Rapallo sia, in pratica sempre stato in quel luogo. Vi era probabilmente già più di cent’anni fa, sicuramente dal ‘28 in poi ed è documentato con fotografia dal 1931.
“La guerra interessò anche il nostro campo sportivo – prosegue nel suo articolo Pier Luigi Benatti – e non solo perché esso assunse il nome di un giocatore caduto per la Patria (Umberto Macera), ma anche perché nei giorni dell’aprile della Liberazione, quando giunsero gli alleati, il terreno di gioco dovette ospitare (con conseguenti irreparabili danni per il fondo) i grossi calibri dell’artiglieria pesante pronti a far fuoco sulle retroguardie tedesche asserragliate al passo di Ruta.
I lavori di rifacimento sacrificavano sull’altare del calcio anche abbondanti porzioni della pista di atletica che avevano visto l’allenamento periodico di campioni azzurri e, durante la guerra, anche di alcuni germanici.
Nel dopoguerra, dietro la tribuna, al di là del torrente, lo scenario mutò profondamente.
Sotto la chiesetta di Costaguta aperta il 5 agosto 1934, il bosco di castagni dovette arretrarsi e là dove c’erano piante da frutto, nel dispiegarsi degli orti, che visitavamo non di rado per controllare la bontà della loro produzione, sorsero palazzine, assai simili nelle loro caratteristiche architettoniche ma con grande fantasia nella nomenclatura floreale, che formarono il nuovo “Quartiere Milano”.
In seguito, anche qui, giunsero i grandi caseggiati ed il ponte, costruito al margine sud del campo da golf presso la trattoria Siggi, provvederà a convogliare il traffico veicolare su questo argine e sparirà ogni traccia del quartiere agreste preesistente. Il campo sportivo si troverà poi di colpo fagocitato dall’espansione urbana per l’apertura del prolungamento di Via della Libertà, l’antico corso Principe di Piemonte, che era senza sbocco e finiva alla confluenza con Via Roma”.
E qui arriviamo alla parte chiave della storia: la fine degli anni Trenta, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra.
Dopo aver vissuto alcune vicissitudini e un paio di cambi di nome (prima G.S. Littorio e poi Tigullia) nel ‘38-39 il Rapallo Ruentes disputa la serie C, ma vede partire diversi suoi giocatori per il fronte. Fra di essi c’è un giovane mediano che ha conquistato un posto in prima squadra, prima di essere chiamato a svolgere il proprio compito di caporale maggiore: Umberto Macera.
Nel librone di Ricci c’è una foto della squadra bianconera di quel periodo che, secondo le informazioni raccolte al tempo della stesura del volume (Umberto Ricci aveva già scritto un libro nel 1964 per ricordare i primi 50 anni di storia della Ruentes) vede protagonista anche Umberto Macera.
In piedi da sinistra a destra: Castiglia, Montanari, Ratto, Macera, Monti, Macelloni, Fravega.
Accosciati: Savorato, Vaccaro, Cataldo, Bragion.
La formazione tipo della stagione ‘38-39 è Bernardo Moretti (che del Rapallo non fu solo portiere ma anche allenatore, factotum, presidente, salvatore e molto altro ancora), Bizzoni, Montanari (Borgogno), Bertolini, Avvenente (Raccone), Ratto (Macera), Morando, Notti, (Monti), De Lucchi (Rabagliati), Rosso, Gianello.
A noi interessano le parole con cui Umberto Ricci narra la stagione successiva, ‘39-40: “Il girone di ritorno ci vide vincere con il Rivarolo (3-1), pareggiare con l’Albenga (2-2)e perdere con il Cavagnaro (0-1).
Proprio dopo questi incontri gli sportivi rapallesi vennero a conoscenza della morte del caporale maggiore Umberto Macera, giocatore validissimo della compagine Bianconera, alla cui memoria verrà poi intitolato il campo sportivo”.
La nostra storia sul “Campo Macera” finisce qui.
Non è un racconto “giallo”, non svela nessun inghippo, è una storia di uomini e persone, è una storia di sport e amicizia, è la storia di una città e della sua squadra di “Irruenti”, è la storia di un luogo che da oltre cento anni è un simbolo per chi c’è stato e lo ha amato.
Ma si sa che i simboli che hanno realmente valore sono quelli che rimangono nel cuore di ognuno. Potrei raccontare molte altre storie della Ruentes degli anni ‘50 o nei fantastici anni ‘60 con la serie C, il presidentissimo Bogliardi e molti giocatori che da Rapallo hanno spiccato al volo per un’eccellente carriera in serie A. Illustrare gli anni ‘70 meno fortunati dal punto di vista dei risultati ma con protagonisti tanti “enfant du pays” che riempivano comunque lo stadio o gli anni ‘80 con la promozione in C2 sfiorata e ben due campionati consecutivi persi in maniera assurda all’ultima giornata, prima di poter trionfare, salire in Interregionale e vivere altre stagioni importanti, compresa l’avventura un po’ folle ma sicuramente eccitante del periodo del presidente Caresana.
Potrei raccontare storie dello stesso Campo Macera, di quando nel 1934, con la sua nuova tribuna, durante i Mondiali vinti dall’Italia, ebbe la fortuna di ospitare la Spagna. Le furie rosse del portiere-leggenda Zamora erano alloggiate al Grand Hotel Savoia, vennero eliminate negli ottavi di finale in modo rocambolesco proprio dalla squadra di Vittorio Pozzo, dopo che la prima partita terminò 1-1 e la ripetizione vide il successo 1-0 di Meazza (che segnò il gol della vittoria) e compagni, ma con l’assenza “sospetta” fra i pali proprio di Zamora.
Situazioni vissute di persona come quando al “campo” sbarcò la Scozia che era di stanza al Bristol durante i Mondiali del’90. Le numerose squadre di serie A o B che prima di giocare a Genova venivano in ritiro a Rapallo e ad allenarsi al Macera il sabato o la domenica mattina. Proprio in queste occasioni ho assistito ad una cosa strabiliante: ho visto il brasiliano Dirceu, che allora giocava nell’Avellino, che, al termine dell’allenamento, con la barriera semovibile di cartone che si usava sul finire degli anni ‘80, ha calciato un numero imprecisato di punizioni poco oltre il limite dell’area e ha sempre messo la palla nello stesso
punto all’incrocio. Indimenticabile.
Invece preferisco chiudere con aneddoti personali, dato che mio papà ancora oggi viene ricordato al “Campo Macera”con una targa che mi rende orgoglioso. Anche perché è vicino a persone che ho conosciuto, stimato e a cui ho voluto bene come Bernardo Moretti e Mario Ravera “Marò”.
Ho una fotografia dell’ottobre ‘67 (avevo un anno e mezzo), quelle della Polaroid che mettevano insieme una foto più grande con di fianco una più piccolina, in cui gioco sul prato del Macera.
Non è una cosa da poco, soprattutto se considero che poi per passione e per lavoro al “campo” ci sono andato la gran parte dei miei giorni (soprattutto domeniche) per una trentina d’anni e che quasi sempre, finché c’è stato, ho incontrato mio papà, direttore dei campi sportivi, dirigente della Ruentes, presidente del settore giovanile, giocatore di carte tutti i pomeriggi nella sede o nella baracchetta vicina.
Ricordo che alle partite casalinghe andavo col nonno Lino, il mio nonno paterno, perché la domenica di solito stavo con lui. Quando ci sistemavamo in tribuna vedevo mio papà seduto inevitabilmente sopra una panca di legno posta sul terrazzino del magazzino che era di fianco alla tribuna e all’ingresso in campo. Dopo che le squadre erano entrate sul terreno di gioco, a sedersi insieme a lui arrivava Poletti, il mitico leggendario custode del “Macera” e di tutti i suoi segreti, altra persona indimenticabile, lui e le sue caprette nane che giravano per il campo.
Poletti era persino più alto e grosso di mio papà e mi sono sempre chiesto come facesse quella panca e soprattutto il tetto del magazzino a sostenere tutto quel peso.
Rammento nitidamente alcune squadre e diversi giocatori della Ruentes dell’inizio degli anni 70: il capitano Brusco, libero d’altri tempi, che sembrava il capo dei pirati, il portiere Cordano, Ghezzi biondo e Daneri ricciolone in difesa, Labadini terzino sulla fascia (mi è sempre sembrato un fenomeno), Casaretto marcatore spietato e poi grande mister, Avellino, Cordasco ala veloce che cercava sempre il dribbling, Maestrini, Mario Rizzo, Ricciotti con i baffoni, Merello (grande tifoso del Toro, perciò mio idolo assoluto), Orlandini, poi i giovani emergenti provenienti dalle giovanili come Giulio e Paolo Stratimirovich, Maucci, Aste, Sangiorgi, Chebba, Monti, Parodi, Giavina.
Tutto questo è abbastanza incredibile perché avevo solo sei-sette anni.
Ricordo le maglie stese al sole ad asciugare nel tratto di prato recintato adiacente al campo, dopo gli spogliatoi.
Se ripenso a questa scena quasi bucolica, alle tante persone che ho conosciuto e che mi hanno sempre trattato con affetto, offrendomi l’enorme opportunità di conoscere le loro storie, di ascoltare i racconti, il cuore si colma di nostalgia e batte forte sovrastato dalle cose semplici di cui mi sono nutrito e hanno dato un senso di “bello” a questo insieme di giorni che chiamano vita.