Genova – Croce rossa in campo bianco. Facciamo chiarezza. L’adozione d’un simbolo è sempre qualcosa di meditato. La scelta può essere condivisa. Oppure può escludere chi non vi si riconosca. Ciò che importa è l’idea che si vuole comunicare. Anche questo è marketing…
La recente boutade espressa dal sindaco Bucci ha fatto il giro del web, rallegrando quest’estate bislacca. Ma, a volte, per evitare la diffusione di notizie infondate, è bene dire come stanno le cose.
Nel corso della sua lunga storia, Genova ha conosciuto un discreto catalogo di simboli, rispondenti a funzioni diverse: dalla croce rossa piana su bianco o argento al San Giorgio che uccide il drago, dalla porta fortificata impressa sulle monete all’Agnus Dei collocato agli angoli dei palazzi (fateci caso), dal grifone che artiglia la volpe pisana e l’aquila imperiale, all’effigie di Giano bifronte, sino alla Madre di Dio, Regina della città. Non parliamo, poi, della Lanterna, simbolo suo malgrado.
Ma se andiamo a vedere quali simboli siano stati adottati dal sistema politico in maniera più duratura, la cosiddetta croce di San Giorgio possiede un posto di rilievo.
Raffigurata negli Annali di Caffaro – il nostro primo annalista –, la troviamo espressamente citata soltanto nel 1242, quando lo stendardo su cui è effigiata, il«vexillum ad signum comunis», è chiaramente distinto dal «vexillum Sancti Georgii», raffigurante il santo nell’atto di alzare la lancia sull’essere immondo.
Paradossalmente, quest’ultimo è citato già nel 1198, oltre che ritratto nel codice degli Annali in corrispondenza della narrazione dell’assedio di Savona del 1227. Ma poco importa. Tali attestazioni ci dicono trattarsi di simboli differenti.
Ora, qualcuno potrà pensare che la croce di San Giorgio e il vessillo omonimo non siano altro che due varianti della stessa cosa: il secondo essendo una versione “estesa” del primo.
Non è così. E il motivo è semplice. La croce di San Giorgio non è la croce di San Giorgio. O, meglio, non lo è in origine! L’associazione tra il santo e la croce rossa in campo bianco ha luogo più lentamente di quanto si pensi.
Inizialmente, il «signum comunis» doveva corrispondere, piuttosto, a una variante del cosiddetto «vexillum Sancti Petri», concesso dalla sede apostolica a chi s’impegnasse in difesa della Cristianità.
Come tale, fu utilizzato sia nelle spedizioni anti-saracene dell’XI secolo, sia nel corso della prima crociata. Ma, certo, non solo dai Genovesi.
Lo ritroviamo a Mantova, a Milano, a Ivrea, a Padova, a Vercelli, per citare i primi centri che mi vengono in mente; e nemmeno con la stessa soluzione cromatica.
Del resto, chi l’ha detto che il rosso accompagnasse i primi crociati? Gli autori del tempo descrivono il vessillo del santo come del tutto bianco («album») (sulla cattedrale di Ferrara non è nemmeno rappresentato, e siamo nel 1135 ca).
E non tirate in ballo i Templari, il cui gonfalone era bianco e nero (la croce rossa fu adottata soltanto verso la metà del secolo).
In sostanza, siamo di fronte a una simbologia utilizzata ovunque; ulteriormente codificata in senso politico nell’ambito della contrapposizione tra papato e impero sviluppatasi nella prima metà del Duecento.
È in questo periodo che il bianco e il rosso iniziano ad affermarsi per indicare i partigiani guelfi dell’uno e quelli ghibellini dell’altro.
Tale suddivisione si manterrà a lungo (guardatevi la trecentesca cronaca di Giovanni Villani).
Nell’ambito di tali scontri, i guelfi genovesi avrebbero dipinto di bianco alcune galee – abbandonando, dunque, la tradizionale colorazione verderame –, imprimendovi alcune croci rosse.
Non è inverisimile, dunque, ch’essi abbiano mutuato tali colori dal «signum comunis» utilizzato nel corso del XII secolo, richiamando, dunque, il ruolo di difensori della «Christianitas».
Del resto, non dimentichiamo che oltre al Sacro Catino e alle ceneri del Battista, Genova millantava il possesso di alcuni frammenti della Vera Croce.
Anzi: del più eminente, recato in battaglia nientemeno che dal patriarca di Gerusalemme. Ora utilizzato per la propria personalissima crociata anti-pisana.
La croce rossa era, dunque, effettivamente in uso. Anche se non solo a Genova. E l’Inghilterra?
Ebbene: l’Inghilterra c’entra poco (e un po’ me ne dispiace; anche in termini di marketing…).
L’utilizzo anglo-normanno del simbolo della croce è più antico di quanto si pensi, risalendo alla concessione del «vexillum Sancti Petri» a Guglielmo Il Conquistatore.
Lo dimostra il celebre arazzo di Bayeux, tessuto negli anni Settanta dell’XI secolo, immediatamente dopo la conquista.
Certo, i rapporti tra il sovrano inglese e Genova non mancheranno, ma le due tradizioni paiono aver proceduto, piuttosto, parallelamente.
Nel corso della terza crociata, Riccardo Cuor di Leone avrebbe sostato per qualche tempo dalle nostre parti. Tuttavia, nessuna fonte afferma esplicitamente una cessione – tantomeno un affitto – del vessillo crociato nel 1190, come capita, sovente, di leggere (peraltro, tirando in ballo il doge: che, tuttavia, sarebbe stato eletto soltanto a partire dal 1339!).
L’apertura d’una rotta regolare tra Genova, l’Inghilterra e le Fiandre, negli anni Settanta del Duecento, avrebbe favorito l’approfondimento dei rapporti reciproci. Ma nulla di più.
Nel Quattrocento, anzi, tali rapporti avrebbero conosciuto una battuta d’arresto a causa della concorrenza commerciale.
Non v’è traccia, a ogni modo, di trattative relative al vessillo negli accordi stipulati tra le parti (ad esempio, nel trattato del 1421, stretto con Enrico V).
Le relazioni si sarebbero normalizzate a distanza di qualche tempo, ed è proprio tale normalizzazione che potrebbe aver favorito l’insorgere della confusione attuale.
A meno che non salti fuori qualche documento, a me sconosciuto – e in tal caso ben venga –, possiamo supporre che l’inghippo sia nato appena dopo il XVIII secolo, allorché si diffuse la pratica delle cosiddette bandiere-ombra (o bandiere di comodo), ovvero di quei bastimenti immatricolati in registri di paesi stranieri che offrivano condizioni fiscali e di navigazione migliori, e, in particolare, protezione nei confronti dei corsari barbareschi.
Ora, giacché la bandiera britannica (al pari di quella francese) era in grado di garantire ciò, era spesso inalberata da compagnie e bastimenti stranieri; anche genovesi, come testimoniato da numerosi documenti del tempo.
Certo, parliamo di bandiera britannica, che è altra cosa rispetto alla croce di San Giorgio. Ma quel che mi preme suggerire è la possibilità che, nel secolo successivo, ribollente di patria retorica, si sia verificata una distorsione della memoria. Cosa affatto rara, anche per periodi ben più vicini ai nostri.
La verità è che, allo stato attuale, non possiamo dire come sia nata la diceria relativa al presunto “affitto” del vessillo crociato, anche se il contesto sette-ottocentesco si presta assai bene a una riflessione ulteriore. Del resto, la mia è solo un’ipotesi. Sarò ben contento se qualcuno vorrà smentirla.
Antonio Musarra
medievista