Genova – Dal prossimo 14 gennaio al 20 febbraio 2022, Palazzo Ducale ospita in Sala Liguria, una mostra dedicata a Guido Rossa nelle vesti di straordinario e appassionato fotografo.
Curata da Gabriele D’Autilia e da Sergio Luzzatto e grazie al contributo di Sabina Rossa che ha concesso il materiale dell’archivio fotografico del padre, questa esposizione presenta circa 70 fotografie, suddivise in due grandi capitoli, che oltre all’introduzione, ci guidano in un percorso ragionato attraverso la produzione di Guido Rossa fotografo. Egli, infatti, ha riservato alcuni momenti della sua vita, diversa da quelli, molti di più, dedicati al lavoro in fabbrica e all’impegno politico per cui lo conosciamo, alla pratica fotografica, che gli permette di registrare pezzi di mondo, grandi e piccoli, ai quali di volta in volta si accosta e con i quali cerca un silenzioso contatto di tipo affettivo-esistenziale.
La mostra Guido Rossa fotografo aggiunge al suo profilo un tratto anteriore, e inedito. Fin dagli anni Sessanta, Rossa ha impugnato la macchina fotografica con profonde motivazioni esistenziali, se non con chissà quali ambizioni artistiche.
Beninteso, in settimana, i suoi giorni sono rimasti scanditi dal lavoro in fabbrica, e sono stati riempiti – da un certo momento in poi – sia dalle preoccupazioni del sindacalista, sia dalle passioni del comunista; ma nei fine settimana, tante sue ore sono state dedicate alla fotografia.
Rossa trascorre anche l’ultima estate della sua vita, quella del 1978, cogliendo scorci di natura e di storia insieme alla figlia Sabina. E la figlia ricorderà perfino gli ultimi giorni del padre, prima del fatidico 24 gennaio 1979, come passati a fotografare una Genova imbiancata di neve.
Tragicamente interrotta, la parabola esistenziale di Guido Rossa sembra non avere lasciato spazio postumo ad altro che a un discorso sulla sua morte più che sulla sua vita. Sia nella memoria locale della città di Genova, sia nella memoria collettiva degli italiani, la figura di Rossa è sopravvissuta quasi soltanto – finora – come quella di una “vittima del terrorismo”. Con l’eccezione degli ambienti alpinistici piemontesi, dove le imprese da scalatore rimangono circondate da un alone di leggenda, la sua immagine retrospettiva risulta schiacciata sulle plumbee circostanze che fecero dell’aggiustatore dell’Italsider, sindacalista della Cgil e militante del Pci, la vittima designata di un commando delle Brigate rosse. Tuttavia, oltre quarant’anni dopo l’omicidio politico che segnò una svolta nella storia d’Italia, è venuto il momento di guardare alla figura di Guido Rossa anche secondo una prospettiva nuova. Non più concentrando l’attenzione unicamente sugli ultimi quattro mesi della sua esistenza: dopo che il delegato della Fiom-Cgil si assunse la responsabilità di denunciare un collega di lavoro che distribuiva all’Italsider volantini delle Br, ed entrò quindi nel mirino dei terroristi come “spia berlingueriana”. Non più riducendo il discorso su Rossa entro l’unica cornice dell’eroe caduto in difesa delle istituzioni repubblicane. Ormai, è venuto il momento di guardare ai quarantaquattro anni che precedettero il delitto. E di collocare la dimensione artistica della vita di Rossa entro la varietà dei suoi contesti: il contesto alpinistico, quello politico, quello industriale, quello culturale”. (testo di Gabriele D’Autilia e Sergio Luzzatto, tratto dall’introduzione al catalogo).
Rossa entra in fabbrica a quindici anni nel 1949, alla Fiat di Torino e, prima ancora di averne venti, sfida la gravità diventando una leggenda della montagna piemontese e praticando, da professionista, anche il paracadutismo. Nel 1961 giunge a Genova, come operaio all’Italsider di Cornigliano; l’ambiente stesso in cui Eugenio Carmi è responsabile della direzione artistica e della comunicazione, rappresenta per lui non solo un con¬testo di lavoro, ma un’occasione per sperimentare la sua energia creativa: trova così nella fotografia un’occupazione mentale e manuale. La fotografia diventa presto uno spazio di libertà, un impegno silenzioso e intimo.
Nel 1963 è in Nepal per misurarsi con i settemila metri del Langtang Lirung himalayano: la catena di montagne più alte del mondo acquista ai suoi occhi una dimensione spirituale che costringe a riflettere, anche attraverso l’obiettivo fotografico. Rossa viene colpito dalla complessità delle realtà indiane e nepalesi. Non ci sono ancora, a questa altezza cronologica della sua vita, il militante politico e il delegato sindacale ma il clima nuovo che si respira nel mondo alimenta la voglia di fare, e di fare qualcosa di buono.
Del resto, non c’è contrad¬dizione tra i modelli di molti giovani di quella generazione in bilico tra papa Gio¬vanni e John Kennedy, e sospesa, a Genova, tra la ribellione alla Curia della “comunità di base” di Oregina e le storie aspre di Fabrizio de André.
L’interesse di Guido Rossa per la fotografia si sviluppa a partire dall’esperienza himalayana del 1963, e si tradusse allora sia nella documentazione della spedizione del Cai, sia in una sorta di reportage sull’India e il Nepal: con un’attenzione particolare alle condizioni delle popolazioni povere, da cui rimase profondamente colpito. Con la sua macchina fotografica ha fedelmente documentato la realtà sociale indiana e nepalese, E allora ecco i fedeli indù a bagno nelle acque del Gange, le donne mendicanti e gli incantatori di serpenti, i monaci buddhisti, i bambini dei campi profughi tibetani: altrettanta umanità che merita per Rossa sia uno scatto dell’otturatore, sia un pensiero annotato sul taccuino.
Nella prima sezione della mostra, queste fotografie sono accompagnate da un resoconto puntuale attraverso i suoi taccuini, e da frammenti di una descrizione del viaggio che Rossa registrò a voce su un magnetofono Geloso.
Le fotografie della seconda sezione, quasi mai databili con esattezza, ma in larga parte scattate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, sono ordinate seguendo quelli che furono i soggetti di predilezione del fotografo dilettante.
I suoi temi riguardano la natura (il mare, le coste, il cielo e i suoi colori, gli alberi, anche i rami, le foglie e i fiori, gli animali dell’uomo), ma soprattutto la storia dei luoghi. Di Genova racconta, camminando in compagnia della sua macchina fotografica, gli antichi palazzi, i portali, gli archi, le colonne, documenta, qua e là, gli affreschi interni, i dipinti, i ritratti pittorici dei personaggi storici, le decorazioni, riproduce le rappresentazioni cartografiche della città e nel contempo realizza vedute dall’alto che descrivono il fitto tessuto dell’urbanizzazione selvaggia.
Della Liguria descrive i paesaggi, gli uliveti, i porti con le barche, ma soprattutto, nuovamente, il paesaggio antropizzato, le strutture abitative, le chiesette, le scalinate. Molto significative, tra le tante fotografie, sono quelle dedicate alle antiche vie consolari romane rimaste visibili in Liguria, agli acquedotti e ai ponti, tra architettura e archeologia, che confermano l’interesse per le tracce che la storia degli uomini lascia sul territorio.
Tra le tante immagini esposte trovano posto anche quelle di alcuni momenti di impegno politico e sindacale, anche se costituiscono un soggetto quasi marginale nel mirino fotografico dell’operaio Rossa.
Attraverso la lettura che il percorso fotografico ci suggerisce, troviamo che per Rossa c’è quasi una vita parallela in cui la dimensione sociale e politica, per quanto coinvolgente, si rivela inadeguata a soddisfare la sua personalità inquieta, sensibile all’arte e alla poesia.
Se da una parte il Guido Rossa consegnato alla storia risponde a un’immagine coerente con il decennio in cui ha trovato la morte, quegli anni Settanta carichi di entusiasmi e di conflitti, di impegno e di violenze, per contro questa mostra tenta di dar conto di altri aspetti della sua personalità.
A corredo della mostra viene presentato anche il film d’avanguardia girato all’Italsider di Cornigliano e alla Fiat di Torino, “L’uomo, il fuoco, il ferro”, di Kurt Blum e Eugenio Carmi (Archivio ILVA). Premiato alla Biennale del 1960, il film nasce ispirato dal libro Immagine di una fabbrica, con gli scatti dello stesso Blum, che raccontano con epico lirismo “quella singolare comunità di uomini e macchine”.
La montagna e la fotografia, sia pur estranee al rumore assordante della storia, possono valere da completamento della vita: dischiudono la strada verso una dimensione del sé più compiuta, che si può trovare ad altezze vertiginose, o “anche in una piccola cosa”.