Genova – “Basta mostri in prima pagina”. Lo chiede l’ex presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, in una lettera aperta inviata al quotidiano genovese “Il Secolo XIX” che per primo – seguito dalla quasi totalità dei Media locali e non – ha diffuso la notizia delle indagini per presunta truffa ai danni dello Stato che avrebbe coinvolto l’ex presidente della Regione Liguria ed il suo ex assessore alla Protezione Civile (oggi assessore nella Giunta del presidente Bucci) Giacomo Giampedrone.
L’ex presidente ha inviato una lettera al direttore de Il Secolo XIX, Michele Brambilla che, in assoluta trasparenza l’ha pubblicata sulle pagine del quotidiano in edicola oggi, rispondendo “dare voce a tutti è un nostro dovere”.
Ecco il testo della lettera inviata da Giovanni Toti:
“Egregio Direttore,
Leggo sulle vostre pagine, e su altri quotidiani, atti che riguardano una accusa di cui non so nulla. Ipotesi di reato recapitate a mezzo stampa, senza neppure la certezza di essere indagato e per che cosa esattamente.
Molte leggi sono state fatte per evitare di sbattere il “mostro” di turno in prima pagina, senza neppure sapere per cosa viene esposto al pubblico biasimo. Evidentemente queste leggi non funzionano. Da collega, da ex direttore e da uomo di comunicazione, sono convinto che ogni giornalista abbia il dovere di rendere pubbliche le notizie che conosce, cercando, in casi delicati come quelli legati a fughe di notizie sensibili, di non rendersi complice, per toni, contenuti, titoli e strilli di chi quelle notizie evidentemente vuole usare in modo strumentale, trasformando ipotesi in sentenze già scritte.
Sono altrettanto certo che chi rivela un atto coperto da segreto, che solo pochi pubblici ufficiali potevano conoscere, violi la legge.
In questo caso, visto che ne’ io, ne’ i miei coindagati, ne’ gli avvocati erano in possesso delle carte, appare evidente infatti che la rivelazione di un atto integrale non può che provenire da chi quelle carte conosce bene.
Su questo, come prevede la legge, spero che chi di dovere possa fare debita chiarezza e io chiederò che venga fatta con tutti gli strumenti che ho a disposizione.
Nel merito della vicenda: ho sempre pagato tutto fino all’ultimo euro. Allo stabilimento balneare che ho frequentato fin dal 2001, il Bagno San Marco, ho tanti amici, compreso il gestore, Davide Marselli.
Ho pagato, e con me mia moglie e la mia famiglia ogni bibita, pranzo, cena, consumata lì.
Anzi, negli ultimi anni, da quando sono stato costretto ad avere una scorta di polizia, ho ridotto al minimo la mia permanenza perché odiavo che persone, costrette lì per me, dovessero attendermi mentre ero seduto a tavola o sotto il sole.
Insomma, parlare di “ombrelloni stagionali “ non mi sembra una esagerazione, ma addirittura una iperbole. D’altra parte, sarebbe bastato chiedere alla mia scorta per conoscere i miei spostamenti, le frequentazioni della battigia, il tempo da me trascorso al mare. E non era neppure necessario: essendo stato intercettato e pedinato per circa cinque anni, mi stupisce che chi indaga non lo sappia, o, forse, peggio, ometta di dirlo.
Chi conosce i miei conti correnti, magistrati e Guardia di Finanza li conoscono bene, sa che suonano vuoto, soprattutto da quando faccio politica. Certamente ho offerto più pranzi e cene di quelli che ho ricevuto.
Si dice che Davide Marselli non facesse ciò che prevedeva il suo contratto con Regione Liguria. Era un contratto da “staff politico”, aiutante, diciamola così, dell’Assessore Giampedrone. Già dire che chi lavora con Giampedrone non lavora è qualcosa di surreale: negli ultimi dieci anni se c’è una persona che ha trascorso notti in bianco e giornate intere nella sala di protezione civile, a vigilare sulla nostra sicurezza, quella è Giampedrone.
Tutti i membri del suo staff hanno lavorato certamente più di quanto lo stipendio prevedesse.
Marselli, ne sono certo, non ha fatto eccezione: non erano i soldi, di cui per altro non avrebbe avuto bisogno, ma l’orgoglio di essere parte di un progetto a cui credeva a legarlo al suo ruolo.
E non può fare la differenza lo stralcio di una testimonianza (vorrei ascoltarla tutta) di un dirigente che non conosceva il collaboratore in questione: la Regione ha circa duemila dipendenti. E neppure qualche parola estratta da anni di intercettazioni: frasi evidentemente frutto di delusioni momentanee e qualche indulgente esagerazione sulla propria generosità per farsi bello con l’interlocutore.
Tutto ciò non può bastare per tanto fango.
Ma la vera domanda è: chi decide dove lavora, come utilizza il suo tempo, quali sono le priorità di un assistente politico? Il contratto di lavoro lascia piena discrezionalità, e dunque: lo decide l’assessore per cui lavora, o lo giudica un magistrato secondo le sue convinzioni?
I contratti di “staff politico” sono fiduciari, non prevedono, a differenza dei lavoratori della Pubblica Amministrazione, ruoli definiti, compiti specifici, né orari di presenza. Sono centinaia le persone che nel tempo hanno ricoperto questo ruolo, lavorando a Genova o in provincia, con incarichi e compiti molto diversi tra loro. Una pratica, da sempre considerata corretta dagli uffici della Regione, che dura da ben prima delle mie amministrazioni, quando collaboratori vivevano e lavoravano anche fuori dai confini della Liguria.
Quale sarebbe la colpa di Marselli? Quale la differenza? L’amicizia, l’impegno politico, il fatto di fare il “bagnino”?
Spero che qualcuno si renda conto, anche dalle parti del Tribunale, che siamo su una linea del Piave che giustizia e informazione non dovrebbero superare, pena perdere ogni credibilità e trasformarsi in persecuzione, perché la gogna di qualcuno rischia di trasformarsi nella sconfitta di un sistema”.